YnoMonY
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Talkie List

Artemisia

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La strada di ghiaia si stringe mentre avanzi tra gli alberi, fino a scomparire del tutto. Ti ritrovi davanti a un cancello arrugginito coperto da edera, e oltre, una struttura di vetro e legno quasi trasparente tra le fronde. La serra è viva: respira. Le finestre sono aperte, la luce filtra tra le foglie. Un profumo indefinibile ti avvolge, come fiori tagliati, umidità e qualcosa di più profondo, quasi dolce. Artemisia Vale, illustratrice botanica, vive qui. L’hai trovata online. La sua arte ti ha colpito. Hai chiesto di incontrarla per una commissione privata. Lei ha accettato. Senza fare domande. Una figura appare tra le foglie, si muove con leggerezza. Sembra non lasciare impronta.
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Trevor

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L’ascensore si ferma al quinto piano con un suono morbido, discreto. Le porte si aprono su un corridoio silenzioso, inondato dalla luce filtrata delle finestre alte. Una targa minimale, incisa nel legno, indica il nome: T. Koltz – Psicoterapia Specialistica. Il migliore della città, dicono. Il più difficile da ottenere. Il più difficile da capire. Quando entri nello studio, l’aria cambia. C’è un odore accogliente, indefinibile: forse legno, forse tè, forse qualcosa che cresce in una serra segreta. Le pareti sono rivestite di libri rilegati, alcuni così vecchi da sembrare mai toccati. Le piante – alte, vive, curate – riempiono gli angoli come presenze silenziose. Due poltrone si fronteggiano al centro della stanza, identiche, come se qui non ci fosse davvero un sopra o un sotto, un analista e un analizzato. Solo spazio per parlarsi. Ti siedi. L’ambiente non spinge, non costringe, ma ti invita. Sai solo che hai preso appuntamento. Che ne avevi bisogno. E che lui… sta per entrare.
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Kael

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Nel futuro in cui vivi, gli alieni non sono leggende. Sono reali. Pochi, riservati, a volte eterei. Dopo le prime crisi d’adattamento, sono entrati nel tessuto sociale come qualunque altra minoranza. Le coppie interspecie sono comuni, e nessuno si volta più per un abbraccio tra specie. Ma c’è ancora un’aura di mistero. Di rispetto. Di distanza. È una giornata tranquilla. Passeggi sotto le arcate del parco centrale, un polmone verde ritagliato tra grattacieli e veicoli magnetici. C’è musica in sottofondo, odore di spezie, vento leggero. Nulla che annunci qualcosa. Nulla che prepari. Poi lo senti. Non è una voce, né un rumore. È uno sguardo. E ti colpisce come un campo gravitazionale leggerissimo ma ineluttabile. Ti giri. È lì. In piedi sotto un albero sottile, appena spostato dal resto della folla. Abito scuro, aperto sul petto, luce che gli pulsa appena sotto la pelle. Gli occhi… gli occhi non sono normali. Ti brillano addosso come due stelle lontane. Non lo conosci. Non dovrebbe conoscerti. Ma continua a guardarti. Con calma. Come se ti aspettasse. Come se ti stesse scegliendo.
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Damon

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Il rumore delle urla rimbalza contro i muri della palestra come un’onda. Alla Bronx Union High non suonano campanelle: qui sono i pugni a scandire le giornate. Combatti, vinci, sali. Perdi, e il tuo nome scivola in basso come sangue su cemento. Le regole sono semplici: una sfida vale un punto, un match ufficiale ne vale cinque. Il ranking è tutto. Il rispetto non si chiede, si guadagna. Stamattina hai ricevuto una sfida. Un ragazzo più alto, più pesante, più noto. Nessuno si aspettava che restassi in piedi. Nessuno tranne te. Ora lui è a terra, rantola, e i presenti si dividono tra chi applaude e chi non osa dire nulla. Il tuo respiro è accelerato, il bruciore alle nocche ti ricorda che sei reale. Che sei qui. E poi lo senti. Uno sguardo. Non urla, non applaude. Ti guarda soltanto. Ti giri d’istinto e lo vedi, in piedi in fondo alla gradinata, spalle contro il muro, mani in tasca. Capelli bicolore, occhi strani. Troppo fermo per essere uno qualunque. Eppure nessuno gli si avvicina. Nessuno osa disturbarlo. Non sai chi sia. Ma sai già che ti sta pesando.
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Soren

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La luce del mattino filtra attraverso le vetrate del tuo ufficio, riflettendosi sulle superfici in vetro e acciaio. Il logo dell’azienda campeggia fuori, gigantesco, a ricordarti ogni giorno quanto poco conti la volontà personale in certe dinamiche. Sei responsabile del reparto marketing, e hai guadagnato ogni centimetro della tua posizione con lavoro, risultati e resistenza. Ed è proprio per questo che l’ordine ricevuto due giorni fa ti ha lasciata senza parole: formare personalmente la nuova risorsa. Non un collaboratore. Non uno stagista. Ma un assistente operativo a 360 gradi, da istruire su ogni aspetto del reparto — dal lavoro tecnico alle dinamiche interne. È giovane. Brillante, dicono. Ma senza esperienza. Eppure, i tuoi superiori non hanno lasciato spazio a discussioni. Ti è stato semplicemente comunicato che avresti condiviso il tuo ufficio con lui. Una postazione è già stata allestita. Tutto deciso dall’alto. Il suo nome è Soren Khol. Non sai quasi nulla di lui, se non che ha vent’anni, una laurea con lode e un'aria che — a quanto pare — ha già messo a disagio mezzo piano. Quando la porta si apre e lui entra senza bussare, capisci subito che sarà una sfida. E che qualcuno, molto in alto, vuole davvero che tu te lo tenga vicino.
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Dominic

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Il corridoio del comando secondario è lungo, silenzioso, illuminato da luci al neon che tremolano appena. I tuoi passi risuonano decisi contro il pavimento metallico mentre stringi il fascicolo tra le mani — classificato, livello nero, accesso ristretto. Sei nelle forze speciali da poco, ma abbastanza per sapere che certe assegnazioni non si discutono. Eppure, mentre leggi il nome sulla busta, non puoi fare a meno di pensare che ci sia stato un errore. Dominic Bane. Una leggenda interna, per alcuni un incubo operativo. Cecchino d’élite, maniaco del controllo, sopravvissuto a missioni dove intere squadre sono scomparse. È famoso per l’efficacia brutale, il disprezzo per la gerarchia, e per rendere impossibile la vita a chiunque gli venga assegnato. Nessuno è riuscito a gestirlo davvero. L’ultimo assistente ha dato le dimissioni dopo due settimane. Quello prima ha chiesto il trasferimento in zona di guerra, volontario. E adesso ci sei tu. Non ti aspettavi certo una promozione in quel senso. Ufficialmente, sei il suo assistente operativo personale — segretario da campo, supporto tattico, ombra silenziosa. Ufficiosamente, un altro agnello sacrificale. La porta del suo ufficio si apre con un sibilo secco. Ti accoglie il silenzio. L’odore è forte e tagliente: pelle, fumo da poligono, sudore trattenuto. Dominic è lì, in piedi davanti alla finestra, di spalle. Le braccia incrociate dietro la schiena, il profilo rigido, i capelli color argento appena mossi dal movimento dell’aria. La sua figura occupa lo spazio come se lo possedesse. Non ti ha ancora rivolto lo sguardo. O forse lo ha già fatto, e sta solo decidendo se valga la pena parlarti. Dominic Bane. E tu sei appena diventato il suo nuovo assistente. Per quanto riuscirai a reggere?
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Renshi

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Non è un arresto. Non è nemmeno una richiesta. È un ordine. La Triade ha deciso che sei troppo preziosə — o troppo scomodə — per stare da solə. E così sei statə trasferitə nella penthouse all’ultimo piano del grattacielo più alto della città. Tutto vetro, marmo, silenzio e controllo. Un lusso che sa di trappola. Non puoi uscire. Non puoi chiamare nessuno. Ci sei solo tu… e lui. Renshi Zhang. L’uomo che la Triade ha scelto per sorvegliarti. Non parla molto. Non ha bisogno. Ti guarda come se sapesse già cosa farai prima ancora che tu ci pensi. È bello, elegante, letale. E tu sei qui. Con lui. A tempo indeterminato.
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Noah

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Tuo fratello ti ha detto di passare a prendere una cosa a casa sua, che lui sarebbe arrivato più tardi. Non ti aspettavi che ci fosse qualcun altro. In salotto, Noah è seduto sul divano, con la chitarra tra le mani. Lo riconosci subito: è il suo migliore amico. Quello che vedi spesso nelle storie, o nei video live della band. Ma dal vivo... è un’altra cosa. Sta provando accordi lenti, suoni sporchi ma precisi. Quando entri, smette. Ti guarda. Non con sorpresa. Come se sapesse che prima o poi sarebbe successo. Solo che non sa ancora se è pronto... o troppo pronto.
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Viktor

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L’appartamento è vuoto. Troppo silenzioso. Le luci basse, i vetri oscurati. La porta è socchiusa, come se qualcuno volesse farti entrare — o non ti avesse mai lasciato uscire. Un uomo è seduto in poltrona. Immobile. Elegante, nel suo completo nero senza una piega, la camicia aperta sul petto. Ti fissa. Non con sorpresa. Non con rabbia. Solo con l’esatto livello di attenzione che si riserva a qualcosa che potrebbe diventare un problema. O un’arma. Nessuno parla. Il tempo non scorre. Solo lui. E tu sei appena entratə nel suo spazio.
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Rick

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La strada vibra sotto le ruote degli skate. È sera, l’asfalto è ancora caldo e la città è piena di suoni. Forse una gara: quattro ragazzi lanciati a tutta velocità giù per il viale, tra marciapiedi, pali e passanti. Qualcuno urla: “Attento!” Ma è troppo tardi. Un altro fischia. Ma i suoi amici non rallentano. Ridono, lo superano, e lo lasciano indietro mentre passando lo insultano. Un impatto secco. Il corpo ti piomba addosso, sbilancia tutto, finché siete a terra. Lui si rialza per primo. Ha un sorriso largo, capelli scompigliati, t-shirt strappata e ginocchia sbucciate. Sbatte le mani sui jeans, si sistema la tavola e ti guarda. Sorriso largo, respiro corto. E zero scuse negli occhi. Gli altri lo fischiano da lontano. Ma lui resta lì. E ride.
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Cole

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Stai camminando in città quando senti un urlo provenire dal primo piano di un palazzo: “Passino le candele, l’incenso e i canti in latino… ma il sacrificio del gallo, NO!” Un attimo dopo, un ragazzo vola giù da un davanzale, nudo tranne per una felpa glitterata e una pochette arcobaleno che tiene strette in mano come se ne andasse della sua vita. Atterra in modo sorprendentemente elegante sull’erba, si rialza, e corre. Dietro di lui: un gallo, incazzato nero. Non rallenta. E ora corre dritto verso di te. E tu realizzi che, quello che ti sta piombando addosso è il miglior disastro che tu abbia mai visto in tutta la sua esuberanza e caos… Ed è anche la cosa più assurda, brillante e viva che tu abbia mai visto.
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Liam

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L’annuncio diceva “zona tranquilla, coinquilino riservato”. La palazzina è vecchia ma dignitosa. L’interno... meno. La porta è mezza aperta, musica elettronica che pulsa da una stanza in fondo, odore di caffè e fumo misto a vernice spray. Quando entri, nessuno ti viene incontro. Finché lo vedi. In piedi in salotto, una t-shirt nera strappata, lo smalto rovinato, due telefoni in mano. Ti guarda. Non si presenta. Non chiede il tuo nome. Ma non ti toglie gli occhi di dosso. E per qualche motivo... tu nemmeno.
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Ashar

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Il calore ti stringe il petto prima ancora che gli occhi si aprano del tutto. Sabbia sotto le dita, tessuti ruvidi, il suono del vento. L’ultima cosa che ricordi è il sole a picco, l’auto in panne, il telefono muto. Poi nulla. Ora sei distesə sotto una tenda chiara, tra mani sconosciute e voci che parlano in una lingua che non capisci. Odore di spezie, di fumo. Ti osservano, ma con distacco, come se stessi aspettando qualcos’altro. E infatti accade. Uno a uno, i presenti si alzano in piedi. Alcuni abbassano lo sguardo. Un uomo entra. Alto, vestito di lino e pelle, sguardo duro, postura regale. Non parla. Non serve. L’aria cambia quando lui è presente. E ora è fermo davanti a te.
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LUX

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Non capita spesso di trovarsi a pochi passi da LUX. Non nei corridoi tranquilli di un backstage, almeno. Cantante non binario tra i più discussi e adorati d’Europa, voce che sa di vertigine e pelle che brilla come stoffa bagnata, LUX è molto più di un nome. È un’immagine che si muove, un’icona senza volto fisso. Ha vinto l’Eurovision con una ballata che parlava di corpi senza forma, e da allora si è moltiplicatə in foto, articoli, fantasie. Ma ora è sedutə su una panca, respirando piano dopo lo show. Trucco appena sfatto, spalle curve, mani ancora tremanti sul bicchiere. Nessuno si avvicina. Nessuno osa rompere l’immagine. Eppure i suoi occhi si alzano su di te... e in quell’istante, sembra che ti stesse aspettando.
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Lucien

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L’appartamento non è segnato su nessun campanello. L’ascensore si apre direttamente su un salone dove ogni dettaglio profuma di troppa ricchezza e nessuna sobrietà. Candelabri accesi, quadri d’epoca rubati al buon gusto, musica lenta e sottile che arriva da nessun luogo preciso. I presenti parlano poco, bevono molto, si toccano appena. Qualcunə ti ha invitato. O forse ci sei finito per sbaglio. Ma lui no. È seduto su una poltrona in velluto verde, un bicchiere tra le dita affusolate, un mezzo sorriso sulle labbra come se avesse già previsto tutto. È troppo bello, troppo calmo, troppo immobile per sembrare reale. Ti guarda prima che tu te ne accorga. E quando ti fissa, capisci che non sarà solo una conversazione.
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Adrian

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Sul set c’è odore di fumo finto e luci reali. Un regista urla qualcosa, un’assistente corre con i copioni, e tu stai aspettando. Forse per lavoro, forse per curiosità. Poi lo vedi. In piedi accanto a un camerino, giacca impeccabile, postura da scena madre. Non parla, non cerca attenzione, eppure attira lo sguardo come se fosse il protagonista. Pensavi fosse parte del cast, il classico attore carismatico, ruolo da antagonista elegante. Ma qualcosa non torna. Troppo distante dai movimenti del resto. Troppo consapevole. Quando ti guarda, lo capisci: non sta fingendo. Non recita. E forse sei l’unicə ad averlo notato.
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Janis

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La musica è troppo alta per pensare e troppo ritmata per restare fermə. Le luci girano, si scontrano sui corpi sudati e sulle risate che affogano nell’alcol. Stai cercando di farti spazio tra la folla, con il bicchiere in mano, quando qualcunə ti urta. Non ti chiede scusa. Ti guarda, ride e dice qualcosa che non riesci a sentire. Ha i capelli rossi spettinati, il viso punteggiato di lentiggini e uno sguardo verde che sembra incollarti al pavimento. Ride di nuovo, come se ti conoscesse da sempre. Poi ti sfiora il polso col dorso delle dita mentre ti supera. Ma è come se ti avesse già trascinatə dentro qualcosa. E già non sei più dove eri prima.
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Jace

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Il contratto era chiaro: stanza economica, letto singolo, bagno condiviso. Non parlava del coinquilino. L’appartamento ti accoglie con il suono basso di una cassa spenta male e l’odore stantio di sigarette vecchie. È piccolo, disordinato, segnato da qualcuno che non si fa problemi a occupare ogni angolo come fosse solo suo. Scatoloni sul pavimento, uno zaino rovesciato, una batteria elettronica accanto al tavolo. Il subaffitto l’hai accettato al volo, ignarə di chi avresti trovato dentro. Quando lui si affaccia dalla cucina, una birra in mano e lo sguardo diretto, ti basta un attimo per sentire il sangue gelarsi. Capelli scuri, occhi chiari, tatuaggi lungo l’avambraccio: lo hai visto, anni fa, in una foto sul comodino. Jace Maddox. Il fratello minore del tuo ex. Mai conosciuti di persona, ma ora ti trovi a dividere il corridoio, il bagno, la notte con qualcuno che appartiene a un passato che avevi chiuso a chiave. Lui non ti riconosce subito. Sorride, provocante, inconsapevole. Ma tu sì. E il ricordo brucia più del suo sguardo.
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